La parete che non crolla

La rottura della quarta parete è un oggetto di discussione attorno al quale vorticano le opinioni di molti critici. Ad oggi questo espediente narrativo è reso noto soprattutto per l’uso, sempre più frequente, nel mondo della Settima Arte, ossia nel cinema, ma l’origine di tale tecnica è datata tra il III e II secolo a.C., già nell’antica Roma per intrattenere un pubblico che apprezzava essere incluso nell’opera stessa. Successivamente verrà ampiamente usata nel XIX e XX secolo nel teatro dell’assurdo.

La quarta parete pone quindi le sue radici nell’ambiente teatrale: il palco è convenzionalmente chiuso da tre lati, ma è presente appunto una quarta parete, ossia un “muro immaginario” posto di fronte al palcoscenico, attraverso il quale lo spettatore osserva l’azione che si svolge nell’opera rappresentata.

Il termine non viene usato solo in teatro, anzi è stato adottato da molte altre forme artistiche, come la letteratura e il cinema, nelle quali indica, in maniera più generica, il confine tra il mondo della finzione e il pubblico. Nell’ambito letterario spicca l’uso che ne fanno Alessadro Manzoni e Pirandello. Manzoni, con finta modestia, si rivolgeva ai suoi “venticinque lettori”, offrendo un esempio impeccabile di rottura della quarta parete, ponendosi in modo fittizio nel mondo reale come scopritore e copista di un manoscritto contenente quella che sarebbe poi stata la sua opera. Pirandello in Sei personaggi in cerca d’autore, lascia i personaggi muoversi e recitare in mezzo al pubblico passando per la platea.

Nella cinematografia la quarta parete viene inclusa come parte del racconto: quando un personaggio scopre di fare parte della finzione, “rompe” la quarta parete per entrare in contatto con il proprio pubblico. Nei primi anni della Storia della Settima Arte, la rottura della quarta parete avveniva in modo fortuito e incontrollato, ma con il passare degli anni è stata resa via via più consapevole. Si è passati dalle vedute Lumière, in cui i passanti ripresi inavvertitamente guardavano direttamente in camera incuriositi dall’avvenimento, all’uso più consapevole dei giorni nostri. L’infrangimento conscio della quarta parete cominciò ad acquisire un che di abituale solo negli anni ’60, idealmente a partire dallo sguardo rivoltoci da Norman Bates nel finale di Psycho.

Abbattere il confine immaginario che divide chi guarda e chi recita non è sempre ben visto dalla critica: non è per nulla semplice usare questo espediente che perciò deve essere “maneggiato con cura”, o si rischia di ottenere un cliché o una pigrizia narrativa.

Tra le serie degli ultimi anni, un esempio magistrale di rottura della quarta parete è quello di Fleabag, serie ideata, scritta e interpretata da Phoebe Waller-Bridge. Nelle due stagioni di Fleabag, la protagonista guarda in camera 232 volte, e si rivolge agli spettatori di frequente, per esempio commentando rapidamente quello che succede nei vari episodi della sua vita quotidiana. Fleabag usa la rottura della quarta parete al fine di creare un’intimità fondamentale per la riuscita della storia e per aumentare la carica comica. Con sagacia e ironia la protagonista ci porta non solo all’interno della sua vita, ma ci lascia curiosare tra i suoi pensieri. Confidando le sue opinioni sconvolgenti e audaci, Fleabag ci permette di avere un quadro completo della sua psicologia, creando una narrazione estremamente realistica della vita di ognuno di noi.

Ma se l’espediente della quarta parete negli ambiti finora analizzati aiuta a ridurre al minimo la finzione, ciò non accade quando erigiamo dei muri nella nostra mente. La presenza di mura psicologiche costituisce un elemento di separazione, un ostacolo che si frappone ai rapporti interpersonali. I muri, insiti dentro di noi, spesso vengono ereditati dalla società in cui viviamo. Abbatterli non è facile, bensì necessario per fuggire alla logorante finzione quotidiana che frantuma l’io in identità molteplici.

 

Ginevra Merulla IIIBC