Il nostro successo dipende dai modelli che scegliamo

Ketanji Brown Jackson è il nuovo nome diventato un problema nazionale negli USA. Se non la conosceste, lei è la giudice scelta lo scorso 25 febbraio dall’attuale presidente degli Stati Uniti Joe Biden per supplire al posto lasciato vacante da Stephen Breyer come membro della Corte Suprema. La notizia di per sé non avrebbe attirato grande attenzione dai media (andando infatti a sostituire un membro democratico come lei e mantenendo l’equilibrio nella Corte), eppure negli ultimi giorni affianca sui quotidiani le ultime news dal fronte ucraino. Perché dunque? Perché Jackson sarebbe la prima donna afroamericana a coprire il ruolo, rappresentando quindi una conquista per l’emancipazione nel mondo politico di due minoranze: quella femminile e quella della comunità afroamericana. Eppure, nelle audizioni che si sono svolte negli ultimi giorni al Senato per far conoscere la candidata ai votanti per la carica a cui concorre, è stata duramente ostacolata dal partito repubblicano, sia per il carattere innovatore della sua elezione sia perché si avvicinano le elezioni di metà mandato. Fa riflettere come i senatori repubblicani abbiano cercato in tutti i modi di mettere in difficoltà Jackson con domande pretestuose: le è stato chiesto di fornire la definizione di donna, di fornire informazioni sulla sua fede, di essere a conoscenza di essere capeggiata dalla sinistra politica del Paese e di esprimere la sua opinione politica sul diritto penale. A queste domande, che risultano evidenti per la loro totale impertinenza, la giudice ha risposto ribadendo il suo ruolo come colei che agisce sulla base di leggi scritte da altri, e la sua estraneità a questioni di natura biologica e religiosa, oltre che politica. Ma a fronte di tutto bisogna notare quanta arroganza contro la donna che potrebbe diventare il membro più esperto per anni di servizio negli ultimi 100 anni e la cui carriera vanta più esperienza di altri quattro “colleghi” alla Corte suprema.  

Molte donne e molti membri della comunità afroamericana hanno infatti protestato per favorire l’ascesa di una donna tanto in gamba quanto fondamentale per le minoranze: tra i manifestanti intervistati è sorto infatti come questa elezione abbia un significato esemplare. Una madre ha dichiarato di manifestare affinché sua figlia possa capire che può sognare, studiare e lavorare per arrivare alle cariche più importanti dello Stato, nonostante porti i capelli afro e abbia labbra più carnose delle altre. Questa idea, che a noi può sembrare banale, negli ultimi anni è sempre più oggetto di studio, perché la mancanza di modelli o punti di riferimento nei bambini non li fa sentire appartenenti a questa società, mantenendoli distaccati come minoranza. Ed è proprio per questo che Aisha Thomas ha fondato in Inghilterra l’organizzazione Representation Matters per sensibilizzare l’importanza di avere modelli, nei media, nei film, ma soprattutto a scuola. A fronte della sempre maggiore partecipazione a scuola di alunni appartenenti a background socio-culturali differenti, i bambini si ritrovano a studiare i grandi conquistatori del passato e i celebri scrittori della letteratura nazionale, che nella gran parte dei casi sono bianchi e maschi, il che li porta ad una fatidica domanda: who do I belong? A chi appartengo? L’esperienza di Thomas parte da un servizio di volontariato nelle carceri dove i giovani criminali di pelle nera le raccontavano di non aver avuto veri modelli lontano dal crimine. In effetti, se ci pensiamo, nell’immaginario comune quali afroamericani occupano ruoli di spicco e fama se non spacciatori, rapper e calciatori? Quali altri modelli di successo possono esistere per un ragazzo dalla pelle scura a Londra? Da qui prende avvio una profonda riflessione su come la nostra società sia ancora influenzata: siamo talmente pieni di bias che appena pensiamo al colore nero ci vengono in mente l’oscurità, la malvagità, il crimine, essere la pecora nera e tanti altri stereotipi. 

Un processo di rinnovo, nonostante mille polemiche, è già stato avviato dal colosso dell’animazione Disney che nei suoi ultimi prodotti ha inserito la rappresentazione della cultura ispanica in Encanto, quella asiatica in Raya e l’ultimo drago e in Red, così da ispirare nuove ambizioni e allo stesso tempo rappresentare sullo schermo la realtà di non essere soli, di appartenere a questa nuova variopinta comunità. 

Immaginate quindi la potenza espressiva che una nomina come quella della Jackson può avere sulla nostra comunità. Può rappresentare quel piccolo tassello per immaginare un mondo dove ogni bambino potrà ambire ad un ruolo che non è stato disegnato solo per un’altra razza, dove ogni bambina potrà capire che il suo colore della pelle importa, perché è un bagaglio culturale non indifferente che sottolinea la nostra identità, ma che non la pregiudicherà mai dal sognare il successo. 

 

 

Maria Giardina VBC