La ricerca della felicità Leopardiana

Qualunque studente ha per lo meno una volta studiato o sentito parlare di colui che è stato sovente

etichettato come “pessimista”, “depresso” e poco moderno, attraverso questi aggettivi alla memoria

giunge subito Leopardi ma niente di più sbagliato si può dire, a parer mio, del tanto chiacchierato

Giacomo. Vorrei esporre il perché invece secondo me costui è più vicino a noi giovani di quanto

pensiamo. Non c’è nulla di più sbagliato che vedere Leopardi come una figura lontana da noi

studenti… lui era esattamente come noi; già dalla tenera età inizia a studiare e scrivere. Fu verso i

suoi 18 anni che inizia a dare sfogo al suo pensiero scrivendolo nello Zibaldone che appunto è il suo

diario personale in cui meglio di ogni altra opera si può delineare il mutamento del suo pensiero

filosofico. Se vogliamo a fondo comprendere il suo pensiero e il suo modo, sicuramente singolare,

di vedere la realtà non si dovrebbe tralasciare neanche una pagina dei suoi scritti poiché tutti sono

testimoni di un pensiero che muta e cresce allo stesso modo in cui muta e cresce l’autore stesso, che

nel corso della sua vita ha sempre sentito questa inquietudine e questa voglia di fuggire da una

realtà recanatese che gli stava particolarmente stretta. La parola che secondo l’opinione pubblica lo

definisce meglio è “pessimista", ma dobbiamo intendere questo temine con l’accezione che ha nei

giorni nostri? Assolutamente no. Lui parla di pessimismo storico, in un primo momento, e ci espone

un concetto tipicamente romantico parlando del fatto che adesso che l’uomo si trova lontano dalla

natura può definirsi triste. Si basa su un concetto secondo il quale è stata proprio la storia ad averci

allontanato dalla felicità vera. Gli uomini antichi erano felici adesso noi, presi dal progresso e da

altre cose effimere, siamo infelici. Ci parla poi della presa di coscienza del fatto che la natura non è

così benevola ma anzi viene definita da lui, adesso, matrigna; eccoci nella fase del pessimismo

cosmico: l’uomo ora sa che esiste la felicità e la natura è malvagia perché ci da conoscenza di

felicità ma non il mezzo per raggiungerla. Riparlando dello zibaldone c’è effettivamente un passo

che ci fa sentire meno soli…quante volte tu ti sei sentito solo e infelice? E quante volte ti sei

colpevolizzato di colpe non tue o hai disperatamente cercato in te o in altri la felicità? Cos’è la

felicità ti sarai chiesto? Beh caro lettore, questi interrogativi come me li sono posta io, anche

Leopardi nella sua giovinezza se li è posti, ha cercato la felicità e ha provato a spiegarsela. In un

passo dello zibaldone una risposta pare arrivarci “La felicità è solo un momento di pausa tra un

dolore e l’altro” E qui ci pare essere coerente a Schopenhauer: “La vita è come un pendolo che

oscilla tra dolore e noia”. Io ho letto un libro, che vi consiglio di leggere; un libro da Alessandro

D’avenia “L’arte di essere fragili” che parla proprio della sensibilità di questo autore che neanche i

professori, a volte, riescono a far comprendere a pieno. C’è una frase, che si trova all’inizio di

questo libro, che mi è sempre rimasta impressa; D’avenia scrive: “mi sembra che stiamo

dimenticando l’arte di essere felici, e che quando lo siamo, per paura che lo stato di grazia sia

un’illusione lo condanniamo a esaurirsi ”. Voglio lasciarvi il piacere di finirlo voi e credetemi se vi

dico che dopo aver letto questo libro, anche il Leopardi studiato tra i banchi di scuola, vi sembrerà

molto vicino a noi. Provateci a comprenderlo. Sono sicura che ci riuscirete e scoprirete un mondo

nuovo. Tocca a noi cercare la felicità e durante il processo di ricerca potremmo accorgerci che non

è molto lontana da noi.

Beatrice La Marca 5C classico