Coronavirus e Iliade: due epoche a confronto

Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, «la storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, messaggera dell’antichità»: queste sono le parole che scrive Cicerone nel De Oratore. E da qui parte il nostro ragionamento: lasciandoci guidare dal passato, possiamo ragionare su come affrontare il presente per reindirizzare il futuro.
La prima rappresentazione di un’epidemia, ossia di una pestilenza che sta, come ci suggerisce l’etimologia, al di sopra del popolo e purtroppo anche al di sopra del suo controllo, la troviamo agli albori della letteratura occidentale, più precisamente in quella greca: Omero, nel primo canto dell’Iliade, racconta di una noúson kakén, una malattia terribile, che colpì l’accampamento greco alle porte della città di Troia.
Durante il decimo anno della guerra, Crise, sacerdote troiano di Apollo, si reca da Agamennone per farsi riconsegnare la figlia Criseide che il re teneva con sé come schiava. Il sovrano lo maltratta, rifiuta la sua offerta e gli ordina di non farsi più vedere. È doveroso chiarire come mai Criseide era stata fatta prigioniera dagli Achei. Le donne facevano parte del bottino di guerra che i soldati si spartivano dopo una vittoria ed erano costrette a vivere come schiave presso i loro padroni.
Infine il povero Crise andò in riva al mare e pregò Apollo: ricordò al dio di avergli eretto un tempio e di aver sacrificato per lui molti animali, poi chiese vendetta. Apollo esaudì il suo desiderio, infatti scese dal cielo terribile e maestoso: “[…] lo ascoltò Febo Apollo e scese giù dalle cime d’Olimpo, adirato nel cuore, portando l’arco sulla spalla e la faretra tutta chiusa; tintinnarono le frecce sulle spalle di lui adirato, mentre si muoveva; scendeva simile alla notte. Poi si fermò distanza dalle navi e vibrò un dardo: sinistro fu il sibilo dell’arco d’argento. All’inizio colpiva i muli ed i cani veloci; ma poi, su loro stessi scagliando il dardo appuntito, li bersagliava; senza posa, fitti, bruciavano i roghi dei morti. Da ben nove giorni sul campo cadevano i dardi del dio, […]”
È interessante notare come l’autore assimili il dilagare della pestilenza a dei dardi pestiferi scagliati dal dio: giustifica un avvenimento, seppur mitico, dandogli una responsabilità divina, connotandolo come atto di vendetta verso gli uomini. Apollo Iatros era infatti venerato come dio delle arti mediche: un suo epiteto poco noto è Sminteo (smintos significa “topo”) ossia “signore dei ratti”, con la doppia accezione di “mandante dei topi” ma anche come “colui che li scaccia”.
Oggi la percezione che abbiamo delle epidemie è molto scientifica, tuttavia è anche affascinante immaginarle come un dio infuriato che scaglia dardi pestilenziali.
Il nuovo coronavirus 2019-nCoV, che l’OMS ha deciso di chiamare SARS-CoV2, isolato nell’uomo per la prima volta alla fine del 2019.
Relativamente alle cause del virus, si è parlato della macellazione di animali selvatici vivi al mercato cittadino di Wuhan, di condizioni igieniche precarie, pipistrelli, ecc.
Oggi dalle analisi genetiche e dai confronti con le sequenze di altri coronavirus da diverse specie animali, il morbo sembra essere originato sicuramente da pipistrelli.
Per alleviare la drammaticità del periodo che stiamo vivendo, provate ad immaginare un’allegorica causa del Coronavirus, un’immagine degna di comparire in un poema epico.
Sperando che Agamennone si sbrighi a restituire a Crise sua figlia, per placare l’ira di Apollo e fermare la pandemia da covid-19.